Con la pronuncia n. 209 del 13/10/2022 la Corte Costituzionale si è espressa circa l’illegittimità del riferimento al “nucleo familiare” da parte della norma agevolativa per l’IMU della prima casa, l’allora art. 13, comma 2 del D.L. 201/2011, poi trasfuso nell’art. 1, comma 741, lettera b) della Legge 160/2019. Con il risultato che, come anche specificato dalla Consulta, ai fini dell’esenzione andrà considerato l’immobile “nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”, motivo per cui i coniugi stabiliti in differenti ambiti territoriali potranno di fatto godere della doppia agevolazione IMU.
Marito e moglie che risiedono in due Comuni per ragioni di lavoro, e che in genere condividono la stessa casa solo nel fine settimana o comunque nei giorni liberi dagli impegni professionali, hanno diritto all’esenzione Imu per entrambi gli immobili, a patto, ovviamente, che rispettino davvero il doppio requisito della residenza e della dimora abituale che permette di non pagare l’imposta.
Per arrivare a questa conclusione la sentenza dichiara l’illegittimità costituzionale di una serie di norme introdotte a suo tempo sul tema. L’obiettivo di queste regole bocciate dai giudici delle leggi era antielusivo, perché nel tempo si è scoperto che in molti casi uno dei coniugi dichiarava al Fisco di risiedere nella seconda casa, al mare o in montagna, ma in realtà abitava in città con l’altro famigliare. Ottenendo però per questa via l’esenzione sia per l’abitazione vera e propria sia per la casa di vacanza.
Il problema ha scatenato un infinito dibattito giurisprudenziale, sfociato nella decisione della Cassazione di negare l’esenzione Imu a entrambe le case della famiglia fiscalmente spacchettata. Il tentativo di risolvere la questione aveva prodotto un’ultima regola a ottobre del 2021, in cui si chiedeva ai due coniugi di decidere, senza un criterio preciso, quale casa escludere l’Imu.
Ad ogni modo, la sentenza n. 209/2022 va finalmente a confermare un orientamento sul quale già risalente prassi ministeriale aveva concordato (circolare n. 3/DF del 18/05/2012 e risposte MEF del 20/01/2014), unitamene a parte della giurisprudenza di merito (ex multis CTP Lecce n. 945 del 17/07/2020, CTR Veneto n. 858 del 31/08/2017 e CTP Brescia n. 605 del 14/07/2016), le quali si sono dimostrate a dir poco possibiliste riguardo all’ipotesi, per i soggetti di cui in analisi, di usufruire singolarmente dell’agevolazione in esame – di fatto, quindi, raddoppiandola – in presenza di determinate condizioni.
La Corte ristabilisce il diritto all’esenzione per ciascuna abitazione principale di persone sposate o parti di un unione civile, nel rispetto dei requisiti della dimora abituale e della residenza anagrafica del possessore dell’immobile e non anche del suo nucleo familiare.
La decisione della Corte riporta però il tema su un terreno più solido. Partendo da un principio: per combattere i comportamenti di chi elude non si può negare un diritto a chi avrebbe un comportamento corretto. La sentenza, quindi, rimette ordine. Riporta a zero l’Imu per entrambe le case dei coniugi. E toccherà ai controlli degli impiegati comunali, e non a norme generiche e impersonali, spesso sfociando nella anticostituzionalità, controllare che la separazione geografica della famiglia sia reale e che i coniugi risiedano effettivamente nelle due case.
E la Corte ricorda anche che l’assenza della dimora abituale può essere provata dai Comuni mediante i consumi dei servizi in dati relativi alle utenze Acqua, Gas ed Energia Elettrica, dati già in possesso di ciascun Ente. Difatti ai comuni sono trasmessi i dati in questione tramite PuntoFisco – Siatel, pertanto, un buon metodo per dimostrare l’assenza della dimora abituale è proprio il controllo dei consumi di energia elettrica e gas da parte di ogni Ente e per ogni contribuente. Questo per il futuro.
Per il passato i comuni dovranno gestire gli accertamenti emessi, le richieste di rimborso, i ricorsi pendenti:
Gli accertamenti definitivi, in quanto non impugnati nei termini, sono oramai definitivi. Un’eventuale richiesta di annullamento in autotutela proposta dal contribuente non obbliga il Comune all’annullamento per effetto della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità, sebbene rimanga il potere discrezionale di disporre comunque l’annullamento, senza incorrere in alcuna responsabilità. Il rigetto della stessa non può essere impugnato. Sul punto si ricorda che l’unico limite all’annullamento è dato dalla presenza di una sentenza passata in giudicato nel merito.
Il contribuente non può aggirare il problema chiedendo il rimborso di quanto pagato con l’accertamento definitivo, in quanto anche il diniego al rimborso non è impugnabile, e se comunque è proposto ricorso, questo è destinato ad essere dichiarato inammissibile, perché ammettere un giudizio nel merito in questo caso vuol dire riaprire, nei fatti ed inammissibilmente, i termini di impugnazione dell’atto non impugnato a suo tempo.
Per i ricorsi pendenti, il Comune dovrebbe annullare i propri atti e chiedere l’estinzione del giudizio con compensazione delle spese, giustificata dalla sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità.